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Lo decido io! Sentirsi liberi di scegliere senza dover rendere conto a nessuno

Federica è una giovane studentessa universitaria, originaria di una piccola città, che si è trasferita da pochi mesi in una città di modeste dimensioni con l’obiettivo di realizzare il sogno che aveva fin da bambina: diventare una veterinaria! Studentessa brillante fin dalla scuola elementare, durante le interrogazioni al liceo si è sempre distinta per le sue eccellenti capacità di analisi, di sintesi e di rielaborazione critica e creativa di quanto studiato, che le hanno consentito di conseguire agevolmente il diploma con il massimo dei voti. I suoi genitori, entrambi avvocati civilisti, hanno festeggiato con lei questo traguardo, lodandola e nutrendo la speranza che lei, l’unica figlia, seguisse le loro orme e quelle dei nonni paterni. Nel corso del liceo hanno ripetutamente cercato di convincerla ad iscriversi a Giurisprudenza prospettandole un futuro roseo all’interno dell’avviato studio di famiglia e criticando il suo desiderio di svolgere un’altra professione. “Se non ti iscriverai a Giurisprudenza, tuo padre ci resterà molto male”, gli ripeteva spesso la madre, anch’essa delusa. A causa del timore di non corrispondere alle aspettative dei genitori, F. in un primo momento sembrava intenzionata a seguire le loro direttive, ma dopo l’esame di maturità, grazie anche al sostegno di una professoressa, aveva deciso ribellarsi al volere dei genitori, sostenendo il test di ammissione alla facoltà di Medicina Veterinaria, test che non ebbe problemi a superare. Finalmente, quindi, era riuscita ad accedere a quel mondo tanto desiderato! Ben presto, però, F. ha iniziato a sperimentare evidenti difficoltà di concentrazione, ad avere vuoti di memoria, e a provare un’ansia intensa, persistente e pervasiva che le impedisce di stare seduta davanti alla scrivania con il libro aperto per più di dieci minuti. “Perché le mie capacità sono scomparse improvvisamente proprio ora che ho intrapreso la strada che mi piace?”, ripete oggi F. fra sé e sé.

Anche voi, come Federica, sperimentate difficoltà nel perseguire qualcosa che vi piace? Anche voi sentite che realizzare il vostro sogno e scegliere con la vostra testa significa essere una delusione per i vostri genitori e per le persone a voi care?

La paura di deludere e in generale di ferire la propria famiglia di origine e le persone che si amano con le proprie scelte di vita autonoma può far sentire di dover mantenere loro una vicinanza nelle idee per evitare di sentirsi in colpa, oppure, nel caso in cui ci si riesce a ribellare a un’imposizione, più o meno diretta, dei propri cari, ci si deve inconsciamente punire.

A causa del forte senso di colpa, consapevole o meno, il soggetto potrà quindi non permettersi di perseguire la propria strada di autonomia oppure potrà farlo soltanto al costo di una grande sofferenza (sintomi ansiosi, vissuti depressivi, blocchi emotivi, ecc.).

A partire dal rapporto con due genitori che hanno sempre disapprovato la sua scelta di diventare una veterinaria, poiché questo significava uscire dal binario familiare dell’avvocatura, Federica ha strutturato la credenza patogena inconscia “Se diventassi autonoma e mi dedicassi a ciò che mi piace, sarei sleale con i miei genitori, li deluderei e li farei soffrire”. Ciononostante, facendo leva sulla sua grande tenacia e determinazione, F. è riuscita a ribellarsi a questa credenza, superando il test di ammissione alla facoltà di Medicina Veterinaria, ma il conto salato che deve pagare per questa “scelta di vita autonoma” comprende una sintomatologia ansiosa e rilevanti difficoltà di memoria e di concentrazione, che le impediscono di studiare serenamente ciò che ha sempre amato. La sua sofferenza, quindi, è il prezzo da pagare per aver “osato” essere sleale con i genitori avvocati.

Non sempre, però, una persona può avere la “forza” per ribellarsi al volere dei propri cari e il timore di essere sleale con loro può portarla a comportarsi in modo compiacente rispetto a una credenza patogena sull’autonomia analoga a quella di Federica. Per non sentirsi colpevole, quindi, la persona sentirà di dover mantenere le stesse idee e gli stessi valori della famiglia di origine e delle persone care, assumendo dei comportamenti conformi alla credenza patogena.

Se Federica si fosse comportata in modo compiacente rispetto alla credenza patogena “Se diventassi autonoma e mi dedicassi a ciò che mi piace, sarei sleale con i miei genitori, li deluderei e li farei soffrire”, avrebbe smorzato sul nascere il suo desiderio di costruirsi una carriera lavorativa alternativa a quella dei genitori e si sarebbe invece iscritta alla facoltà di Giurisprudenza. Con quali conseguenze? Quali vissuti avrebbero potuto fare capolino nel breve, medio e lungo periodo? Tristezza? Rassegnazione? Disgusto per un lavoro che non desiderava svolgere?

Il conflitto tra l’essere autonomo e l’essere sleale rispetto a quello che gli altri si aspettano tu sia, creda o faccia, può manifestarsi in diversi ambiti. Alcuni esempi:

  • frequentare un corso di laurea e/o scegliere una carriera lavorativa senza l’approvazione dei genitori;
  • vivere in una città distante da quella d’origine;
  • assumere diverse idee in politica;
  • scegliere di seguire un diverso credo religioso;
  • adottare un diverso stile di vita;
  • ecc.

Rivolgerti a uno psicologo potrebbe aiutarti a gettare luce sui meccanismi sottesi alla tua sofferenza e alle tue difficoltà, e aiutarti a seguire i tuoi desideri senza dover rendere conto a nessuno, mettendo da parte il senso di colpa, conscio o inconscio, e/o evitando di provare malessere mentre scegli e percorri la tua strada di autonomia.

Non c’è nulla di male nel realizzare i propri sogni!

Che colpa ne ho? Si può avere (essere) di più!

Mangia! Magari i bambini africani potessero mangiare quello che hai tu nel piatto!”

Quanti di voi, quando erano bambini, hanno sentito i propri genitori o i propri parenti ripetergli questa o simili esortazioni ogniqualvolta si rifiutavano di mangiare questo o quell’alimento? E quanti di voi hanno pensato

“Che sciocchezza! Se anche mangiassi, i bambini africani non si sfamerebbero!”?

Tuttavia, indipendentemente dalle conclusioni logiche cui siete giunti, in quei momenti veniva fatta leva sulla tendenza innata dell’essere umano a paragonare la propria condizione con quella degli altri e a identificarsi con la sofferenza di chi “ha di meno” per attribuirsene la responsabilità.

Se i migliaia di chilometri che ci separano dall’Africa rendono, tutto sommato, meno difficoltoso distanziarsi anche emotivamente dall’esperienza di malnutrizione cronica altrui per concentrarsi, invece, sui propri legittimi bisogni e desideri, cosa succede quando chi “ha di meno” si trova più vicino? E se quel bambino africano fosse un fratellino malato, una madre depressa, un padre morto prematuramente, un partner che sta sperimentando un fallimento lavorativo o un caro amico che viene continuamente bocciato a un esame universitario che voi avete invece superato al primo appello con trenta e lode?

Empatizzare con la sofferenza di chi “ha di meno” è un aspetto generale dell’essere umano, ed è alla base di comportamenti altruistici che ci garantiscono la possibilità di creare relazioni reciprocamente appaganti e di collaborare per sollevarci dalla terribile prospettiva di dover fare tutto da soli, di sostenerci a vicenda nei momenti di difficoltà e di raggiungere obiettivi altrimenti impossibili da perseguire (dai più “naturali”, come mettere al mondo un figlio per garantire la sopravvivenza dei nostri geni, ai più “artificiali”, come costruire un ponte). Da qui, nasce l’esigenza di condividere le risorse che abbiamo a disposizione e l’idea alla base per cui se io prendo tanto, quel che prendo lo sottraggo alle persone che ho intorno. Pensate al frigo di casa vostra: se lo svuotaste, cosa potranno mangiare i vostri familiari fino alla prossima spesa?

Il problema è che questa tendenza emotivanormale, universale e in principio utile, può divenire d’ostacolo nella misura in cui cessa di prendere in considerazione la realtà (vedi l’esempio dei bambini africani), si oppone ai bisogni egoistici e di auto-realizzazione (ugualmente normali, sani e indispensabili come quelli altruistici) o viene applicata a risorse “non limitate”: possiamo prendere quantità infinite di felicitàsuccessosoddisfazione, e non sarebbe di certo questo a togliere agli altri la possibilità di fare lo stesso. Quando ciò avviene, la persona sviluppa la convinzione, spesso inconscia, che se si “abbuffasse” di felicità/successo/soddisfazione, ecc. i suoi cari ne verrebbero privati.

Nelle sue diverse forme la realizzazione personale viene quindi percepita come una “torta” e prenderne una fetta non significa soltanto sfamarsi, ma vuol dire soprattutto toglierla agli altri.

La persona arriva così ad associare inconsciamente la propria condizione di benessere, potenziale e/o reale, a quella di malessere altrui, e finisce con il sentirsi in colpa, a livello inconscio, ad avere una sorte migliore e/o più talento, successo, soddisfazioni, ecc. dei propri cari: ciò significherebbe per lui deprivarli, far loro un torto. Questa idea può divenire una “bussola” che orienta le scelte e definisce il modo di stare al mondo.

A partire da ciò, che scenari si possono verificare?

  • Si può provare un forte senso di colpa nell’avere una sorte migliore di quella di una persona amata, sofferente o scomparsa.
  • Si possono sviluppare diverse forme di malessere (sintomi ansiosi, vissuti depressivi, disturbi somatici, ecc.).
  • Si possono sviluppare dei pensieri autosvalutanti.
  • Si possono assumere dei comportamenti autosabotanti (boicottare i propri successi, rinunciare senza un motivo apparente a una propria passione, bloccare sul nascere una possibile relazione sentimentale soddisfacente, rimanere in una relazione sentimentale insoddisfacente, ecc.).

Le diverse forme di malessere, i pensieri autosvalutanti e i comportamenti autosabotanti finiscono con il danneggiare se stessi e possono rappresentare delle condotte di espiazione che hanno l’obiettivo di “cancellare” o quantomeno rendere più tollerabile il senso di colpa inconscio con cui si convive per il fatto di “avere di più”. Non è affatto indispensabile, e di fatti spesso ciò non avviene, che ci si senta in colpa anche consapevolmente.

Due esempi:

Filippo ha iniziato a soffrire di attacchi di panico subito dopo aver vinto il dottorato che aveva sempre desiderato. Suo padre era stato colpito da un’ischemia che l’aveva reso gravemente disabile il giorno successivo alla discussione della sua tesi di laurea: inconsciamente aveva associato il suo successo alla malattia del padre.

Margherita svolge un lavoro non qualificato, sebbene sia laureata. Ogni volta che ottiene un riconoscimento sul posto di lavoro o una soddisfazione personale, lamenta emicranie e dermatiti. Malgrado le sue capacità, ripete continuamente a se stessa di non essere abbastanza intelligente e preparata. Sorella minore di una ragazza con Sindrome di Down, aveva inconsciamente associato le sue possibilità di successo a quelle negate in partenza della sorella.

Spesso, però, non sono unicamente le contingenze che portano ad associare il benessere personale alla sofferenza altrui, ma all’origine di tale associazione è possibile rintracciare la presenza di relazioni con genitori, parenti e/o figure di riferimento che, in modo più o meno esplicito, adottano comportamenti “sofferenti” e/o atteggiamenti di diverso tipo (vittimismo, mancati festeggiamenti, invidia, ecc.) che ci fanno sentire in colpa se pensiamo a noi stessi, ci dedichiamo ai nostri interessi e godiamo di un nostro traguardo.

Due esempi:

Flavia è bloccata da due anni con la tesi di laurea. Ogni giorno si siede davanti alla scrivania del computer, ma avverte un’improvvisa stanchezza, cui segue una grande irritazione. Quando F. era bambina, la madre, una donna gravemente depressa, con la tendenza a fare la vittima e a catalizzare l’attenzione sui propri bisogni, le impediva di festeggiare i compleanni perché non aveva le forze per alzarsi dal letto e organizzare le feste: F. aveva così inconsciamente associato la sua realizzazione personale e professionale alla sofferenza della madre.

Valeria ha una vita sentimentale insoddisfacente: quando finalmente incontra degli uomini sensibili avverte una sensazione di panico e un senso di soffocamento. È cresciuta con un padre che assumeva un atteggiamento violento con lei, con la madre e con le due sorelle minori. Quando, stufa di questo trattamento, ha deciso di allontanarsi da casa, la madre in lacrime le ha urlato “Non vorrai mica abbandonarci qui con lui!”. La sintomatologia esprime il senso di colpa inconscio che si porta dentro per aver provato ad avere una vita relazionale migliore della madre e delle sorelle.

Negli esempi riportati, la logica alla base è sempre la stessa: avere più degli altri o versare in condizioni migliori viene, spesso inconsapevolmente, associato a un senso di ingiustizia, di iniquitàcome se ciò che si ha (fortuna, talento, successo, soddisfazioni, ecc.) fosse stato tolto a qualcun altro. Questo particolare tipo di senso di colpa inconscio viene chiamato “senso di colpa del sopravvissuto”.

Contattare uno psicologo potrebbe aiutarti a:

  • prestare attenzione ai tuoi bisogni e ai tuoi desideri
  • comprendere e trasformare la tua sofferenza, impedendoti di autosabotarti inconsciamente
  • riconoscere, liberare e utilizzare il tuo talento per perseguire i tuoi obiettivi
  • instaurare e/o vivere una relazione sentimentale appagante
  • godere pienamente dei traguardi che raggiungi e delle soddisfazioni che la vita ti riserva

Si può avere (essere) di più!